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Storia di ieri: LA CHIESA DI PARMA NEL LUNGO VIAGGIO ATTRAVERSO LA DITTATURA FASCISTA. 1926-1945 [ versione stampabile ]

di Paolo Trionfini

All’avvento della dittatura fascista, la diocesi di Parma era retta da Guido Maria Conforti, nato a Casalora di Ravadese il 30 marzo 1865, il quale, dopo essere stato ordinato sacerdote nel 1888, aveva maturato un’attenzione crescente nei confronti delle missioni, che si era concretizzata con la fondazione nel 1895 del Seminario emiliano delle missioni estere, germe iniziale dei missionari saveriani. Dopo essere stato dal 1896 al 1902 vicario generale della diocesi, il sacerdote parmense era stato designato arcivescovo di Ravenna, dove era rimasto fino al 1904, quando aveva rassegnato le dimissioni per motivi di salute.

Nel 1907 era stato nominato vescovo coadiutore con diritto di successione di mons. Francesco Magani, subentrandogli l’anno successivo. Sanate le «condizioni eccezionalmente lagrimevoli» in cui versava la diocesi di Parma per le tensioni innescatesi durante l’episcopato del predecessore, Conforti aveva potuto più distesamente dare seguito al progetto pastorale incentrato sulla formazione spirituale e culturale del clero, il rinnovamento dell’istituto della parrocchia, una più matura distinzione tra piano religioso e sfera politica nella missione della Chiesa, la promozione del movimento liturgico, il risveglio biblico, la maturazione di una visione “moderna” sulla collaborazione del laicato.

Queste attenzioni arrivarono più compiutamente a maturazione nel corso degli anni Venti, quando, chiusa la lacerante esperienza bellica, che – nella rappresentazione pubblica offerta – aveva comunque indirettamente «tratto i cattolici fuori di un certo isolamento dalla vita nazionale»
(1), Conforti aveva sollecitato l’instaurazione del regno di Cristo nella società, secondo i «principi di giustizia e di carità proclamati dal Vangelo» (2). Gli intendimenti espressi trovarono un compendio nei due sinodi celebrati (1914 e 1930) e nelle cinque visite pastorali promosse.

Alieno da prese di posizione nei confronti dell’autorità costituita, ma anche fermamente deciso a non lasciarsi invischiare nei tentativi di strumentalizzazione attuati dalle propaggini locali del regime, il presule non aveva, tuttavia, esitato a denunciare le violenze dello squadrismo fascista, sostenendo anche le coraggiose prese di posizione di don Giovanni Del Monte dalle colonne di «Vita nuova», il settimanale diocesano da lui fortemente voluto nel 1919. Fu proprio il direttore del periodico a ribadire pubblicamente nel 1926 che al fascismo non poteva essere concesso il ruolo di tutore degli interessi religiosi della Chiesa: «Crediamo che ad un migliore avvenire – scrisse all’indomani del varo delle leggi “fascistissime” che segnarono la “svolta” autoritaria – abbiano contribuito assai più coloro che hanno ripetuto i principi cattolici anche quando significavano condanna, che non coloro che si sono accodati silenziosamente ai vincitori»
(3). Ancor più esplicitamente il direttore del settimanale diocesano replicò alla pretesa di creare una persona integralmente formata secondo i canoni ideologici fascisti, negando il principio di assolutizzazione dello Stato, per sottolineare che la Chiesa aveva «più bisogno di libertà che di privilegi» e non poteva legarsi «a particolari forme politiche» (4).

Nelle condizioni esterne imposte, la Chiesa di Parma cercò di trovare con il regime un modus vivendi, che venne sostanzialmente mantenuto lungo tutto il ventennio, pur con qualche scivolamento verso posizioni di consenso più aperto, soprattutto nel corso degli anni Trenta. I compromessi raggiunti non furono privi di conseguenze: la costituzione dell’Opera nazionale balilla nel 1926 costrinse a porre fine allo scoutismo cattolico e alle organizzazioni di impronta non strettamente religiosa inserite nell’Azione Cattolica Italiana (ACI) attraverso la Federazione delle attività sportive cattoliche italiane (FASCI), ma nello stesso tempo rese evidente che l’AC rappresentava per il regime una potenziale concorrente nell’educazione della gioventù.

Il “ripiegamento” in uno spazio più strettamente religioso (non privo, tuttavia, di significative ricadute sulla formazione dei giovani, che avrebbero alimentato tensioni con le organizzazioni fasciste) si concretizzò – come ebbe a scrivere il presidente della Federazione diocesana giovanile dell’ACI in una relazione – in una

vasta attività esplicata non attraverso convegni chiassosi e sbandieramenti, ma attraverso un lavoro intenso e costante di studio della nostra azione, di penetrazione delle anime, di comprensione, della necessità di un apostolato fraterno e vicendevole, imperniato sull’obbedienza illimitata all’autorità ecclesiastica e sulla carità che non conosce limiti né di tempo né di persone (5).


La sottolineatura si collegava alle indicazioni, intrise di una vena ironica, lanciate da Conforti, il quale aveva insistito sulla valenza di un’educazione religiosa integrale, che non poteva essere surrogata da altre attività:


Oggi giorno nella formazione della gioventù si ha gran cura del culto della volontà e dell’energia del carattere per preparare una generazione forte, capace di tutti i nobili ardimenti; e stà bene. Ma chi non vede che la fortezza d’animo e l’energia del carattere formano la caratteristica dell’Angelico Giovane e ci danno in parte ragioni delle sublimi sue ascensioni? (6).


Fu nuovamente don Del Monte a rilanciare questa prospettiva, tratteggiando i compiti che spettavano al mondo cattolico parmense in quel problematico frangente:


Per vicende storiche a tutti note, in questi ultimi anni è venuta meno una parte di lavoro nel terreno sociale per i cattolici italiani. […] La Chiesa, anche esclusa dall’azione diretta nella vita sociale pratica, ritirandosi nei suoi domini essenziali, portando con sé il libro dei Vangeli e le tradizioni più profonde della civiltà cristiana sente di avere con sé ciò che è più grande e vivo nel mondo. Forse questi vasti orizzonti non attireranno le masse numerosissime; ma agli spiriti vigili, specialmente ai giovani generosi vorremmo ripetere la parola del Vangelo: «Levate gli occhi vostri e mirate le campagne che già biondeggiano per la messe» (7).


Le ombre che avevano oscurato i rapporti con il regime sembrarono diradarsi con la stipula dei Patti lateranensi, che l’11 febbraio 1929 chiusero formalmente – come ebbe a sottolineare Conforti – gli «infecondi dissidi» insorti con il processo risorgimentale tra Stato e Chiesa, che avevano causato la fine del potere temporale. L’evento fu salutato dal vescovo di Parma, in un solenne Te Deum, sotto il segno – condiviso con larga parte del mondo cattolico italiano – della «conciliazione», attraverso la quale «la giustizia e la pace si [era]no baciate in fronte» (8). Al di là della retorica di circostanza, l’uscita intendeva cogliere i risvolti pastorali nella vita della Chiesa, che ora poteva dispiegarsi senza i «ceppi» che ne avevano ostacolato l’influsso sul piano pubblico (9).

Il prezzo pagato fu, comunque, salato: in occasione delle elezioni per il rinnovo della Camera del 24 marzo ’29, ridotte a plebiscito, su indicazione proveniente da Roma i cattolici parmensi furono invitati «a compiere disciplinatamente e con coscienza l’alto dovere»
(10), che non corrispondeva a un «atto politico, ma [a] un atto sostanzialmente religioso in forma politica» (11). Nonostante il clima più disteso, non mancarono frizioni: il settimanale diocesano, che pure fu indotto ad ammorbidire i toni, fu a più riprese minacciato di sequestro.

Agli inizi degli anni Trenta, si innalzò sensibilmente la preoccupazione da parte del regime nei confronti dell’associazionismo cattolico, che, anche per la sensibile espansione organizzativa, contrastava il tentativo di monopolizzare l’educazione della gioventù impartita nelle organizzazioni del regime. Dopo le reiterate richieste del ministero dell’Interno alle prefetture del Regno per avere un quadro dettagliato sulla situazione dei circoli dell’Azione Cattolica, nel corso del 1931 i rapporti tra Chiesa e fascismo furono turbati da una serie di incidenti, che ebbero a Parma uno degli epicentri più rilevanti. In aprile, si registrarono le prime avvisaglie dello scontro, aperto in forma provocatoria dal sequestro dell’elenco dei soci dei circoli giovanili. Il vescovo Conforti intervenne presso il prefetto Eolo Rebua per denunciare i «sintomi poco rassicuranti sulla libertà dei giovani »
(12).  Il braccio di ferro aperto da Mussolini si a cuì con il decreto con il quale, il 28 maggio 1931, le autorità locali dovevano procedere alla chiusura dei circoli giovanili dell’Azione Cattolica, al sequestro dei materiali e alla diffida dei dirigenti.

Al provvedimento seguì uno stillicidio di violenze, concentrato soprattutto in città: se gli assalti contro i circoli giovanili «D.M. Villa» e della parrocchia di Ognissanti, nell’Oltretorrente, furono sventati dal pronto intervento dei soci, le sedi del circolo giovanile della parrocchia della Trinità e del gruppo della Fuci furono devastati. Lo stesso Pio XI, ricevendo in udienza gli universitari cattolici italiani, avrebbe espresso il proprio rincrescimento per l’atto vandalico
(13).

Altri assalti si verificarono nei centri della campagna, come a Viarolo e San Secondo. Alla fine di giugno, Pio XI promulgò l’enciclica Non abbiamo bisogno, significativamente scritta in italiano, che, pur non contenendo riferimenti espliciti di condanna al fascismo, venne ad assumere, dopo un prolungato e generalizzato silenzio dell’episcopato italiano, un carattere di sfida contro le pretese totalizzanti del regime. La risposta fascista non si fece attendere: a Parma, dopo il ricorso alle minacce per costringere i giovani cattolici a iscriversi al fascio, l’ex presidente diocesano della Gioventù cattolica, Camillo Negri, fu vittima di un’«ingiusta e violenta aggressione»
(14).

Il conflitto apertosi trovò su scala nazionale una conclusione negli accordi di settembre, che, nonostante salvaguardassero l’autonomia dell’Azione Cattolica dalle organizzazioni del regime, ponevano una serie di condizionamenti che delimitavano ulteriormente alla sfera religiosa il raggio d’azione dell’associazione. Conforti salutò con «gaudio» l’intesa raggiunta, esprimendo comunque parole pubbliche di ammirazione verso i giovani «per il contegno nobile e forte» che avevano saputo mantenere di «fronte alla bufera scatenatasi», che non ne aveva risparmiata l’«incolumità personale»
(15).

Al compromesso, quasi a voler suggellare il senso di una vittoria nel braccio di ferro ingaggiato, le squadre fasciste fecero seguire una nuova ondata di violenze, nel tentativo perlopiù di strappare i segni di identificazione che i giovani cattolici ostentavano orgogliosamente. Per il rifiuto opposto, diversi militanti subirono un’aggressione fisica, prontamente denunciata da Conforti, il quale, dopo essere intervenuto presso il prefetto, lamentò in Segreteria di Stato la debolezza delle «misure» adottate contro gli autori
(16).

L’uscita segnò anche simbolicamente la fine dell’episcopato: il 5 novembre 1931, infatti, Guido Maria Conforti si spense. A succedergli al governo della diocesi di Parma fu designato Evasio Colli, originario di Lu Monferrato, paese della diocesi di Casale Monferrato ma appartenente alla provincia di Alessandria, dove era nato nel 1883, il quale aveva maturato una ricca esperienza pastorale come vescovo di Acireale dal 1927 al 1932.

Attorno alla figura del vescovo, che incarnava l’immagine della Chiesa «docente» su tutti gli aspetti della «vita individuale, domestica e sociale», Colli si adoperò per rinsaldare il tessuto del mondo cattolico parmense: identificando strettamente il «bene della Patria e della civiltà insieme», era, infatti, portato a far risaltare anche esternamente un corpo ecclesiale compatto, capace di trasfondere «quei principi cristiani che [era]no il midollo della civiltà»
(17).

Questo approccio costituì il filo conduttore di una molteplicità di prese di posizione sulle problematiche più disparate che agitavano la vita collettiva: nella lettera pastorale del 1934 il presule si scagliò contro l’immoralità dilagante; l’anno successivo prese di mira il tentativo attuato dalla propaganda protestante di invadere culturalmente e religiosamente i «sacri confini della Patria», segnati e difesi non solo «dalle aspre montagne, ma altresì dalla inviolata integrità della morale cattolica», che si opponeva, nelle sue fondamenta a «quell’individualismo che e[ra], per se stesso un latente germe di protestantesimo»
(18); nel 1937, delineando il tema del bolscevismo contro cui anche la propaganda fascista non risparmiava i propri strali, mise in guardia dalla tentazione della lotta di classe (19).

Le questioni messe a fuoco, al di là delle puntualizzazioni magisteriali offerte, costituivano anche continue sollecitazioni per i fedeli a mobilitarsi – come «soldati della grande causa di Cristo» – contro i nemici che via via si presentavano. Questa spinta consentì al mondo cattolico parmense un deciso rilancio anche sul piano organizzativo: nel 1937, per richiamare un’esemplificazione tangibile, l’Azione Cattolica superò la ragguardevole cifra dei 16.000 iscritti, una quota destinata, peraltro, a crescere fino allo scoppio della guerra, radicandosi capillarmente pressoché in tutte le parrocchie della diocesi. Non va, inoltre, trascurato il fatto che la costruzione di un associazionismo di massa, non appiattibile sui moduli di mobilitazione del regime, consentì di sviluppare nuove forme di presenza nella vita della Chiesa e della società, a partire dal protagonismo femminile.

Il consolidamento avvenne, tuttavia, attraverso un più marcato conformismo, di cui le dimissioni di don Del Monte dalla direzione di «Vita nuova» divennero il segnale esteriore più visibile. Il settimanale sospese, quindi, nel 1934 le uscite, cedendo il testimone a una pagina dedicata alla vita della diocesi, ospitata sull’«Osservatore romano della domenica», che fu strutturata secondo il taglio del bollettino informativo.

Le tensioni sulla duplice appartenenza alle organizzazioni del regime e all’associazionismo giovanile cattolico si stemperarono, fino quasi a dissolversi: nel 1933 padre Giovanni Battista Perenzoni, il nuovo assistente spirituale del circolo «D.M.Villa» – il più vivace tra i gruppi cittadini, caratterizzatosi in passato per una forte componente antifascista –, provvide d’autorità, anche in forza della carica di cappellano dei balilla, a espellere una decina di soci appartenenti alle classi popolari dell’Oltretorrente di estrazione antifascista, provocando anche una crisi interna che portò allo scioglimento temporaneo dell’associazione stimmatina
(20).

Nel clima di generalizzato consenso che pervase la nazione in occasione della campagna d’Africa tra il 1935 e il 1936, la Chiesa di Parma, nelle sue diverse componenti, non mancò di accordare la propria voce sullo spartito che si andava suonando. Colli invitò in modo accorato i fedeli a «essere all’avanguardia dei migliori cittadini»
(21).

Sulla scia dell’appello si moltiplicarono le iniziative: per richiamare solo due esempi, l’assemblea diocesana dell’AC del 1935 ebbe un’intonazione fervida per la vittoria in Etiopia; in quest’ottica fu poi promossa una funzione propiziatrice per le armate italiane che stavano avanzando per portare «grandi frutti di bene in quelle terre ancora barbare», sotto l’insegna «del tricolore segnacolo di vittoria e di civiltà latina»
(22). Nondimeno la guerra civile spagnola fu vissuta come uno scontro di civiltà, che aveva come posta in gioco la permanenza del cristianesimo: all’ombra di questa concezione non mancarono, quindi, gli inviti ai fedeli ad aggregarsi come volontari ai corpi inviati da Mussolini a sostegno delle milizie di Franco.

Queste convergenze subirono un momento di verifica critica in seguito alla promulgazione delle leggi razziali nel 1938. La “svolta” del regime indusse Colli a chiedere «chiarezza» sulla natura della dottrina razzista, che doveva essere precisata, specificando se essa contenesse «una portata soltanto biologica o anche filosofica, contingente o assoluta, materialistica o anche spirituale». Il presule chiese pubblicamente anche se, al fondo, si accettavano le «verità di fede relative alla discendenza comune del primo uomo creato da Dio, alla comune Redenzione operata da Gesù Cristo, al comune destino eterno soprannaturale»
(23).

La richiesta non esprimeva tanto una condanna alla persecuzione dei diritti civili nei confronti degli ebrei, quanto piuttosto suonava come un avvertimento che la Chiesa non era disposta ad accettare il substrato ideologico che rifletteva il razzismo di matrice nazista. Per Colli, infatti, i rapporti tra Chiesa e fascismo dovevano continuare all’insegna del Concordato del 1929, con cui «il cuore di un grande Pontefice e il genio di un grande Statista» avevano consacrato l’«unità integrale dell’Italia», evitando l’importazione di teorie che snaturavano il patrimonio religioso e civile del Paese
(24).

Anche se formalmente i Patti lateranensi non vennero toccati, lo spirito che ne aveva accompagnato la promulgazione subì un’incrinatura significativa. Contribuì in questo senso la cosiddetta «battaglia dei distintivi», come è denominato l’urto che si innescò attorno ai simboli di identificazione che i militanti cattolici portavano all’occhiello, provocando la reazione delle squadre fasciste. La nuova serie di incidenti che si verificò tra il 1938 e il 1939 riaccese, infatti, le tensioni tra il regime e ’associazionismo cattolico per il monopolio dell’educazione dei giovani, che il fascismo alimentò volutamente nel tentativo di sciogliere le duplici appartenenze in favore delle proprie organizzazioni. Sull’onda degli incidenti prodotti, il nuovo papa Pio XII condusse in porto la riforma degli statuti dell’ACI, che rispondeva sostanzialmente a motivi difensivi, nel timore di una nuova fase di scontri col fascismo. Lo stesso Colli, che sarebbe stato nominato segretario della Commissione preposta alla direzione del centro nazionale dell’associazione, di fronte alle obiezioni sollevate per un cedimento alle attese del regime rispose che «altro è cedere (che sarebbe viltà), altro è adattarsi (che può essere prudenza)»
(25).

In questo clima cominciò a muoversi con più convinzione una corrente sotterranea di opposizione al fascismo di matrice cattolica, che passò attraverso l’opera di alcune importanti figure di educatori. Vi fu, innanzitutto, Giuseppe Micheli, che, radunando vecchi amici e nuovi discepoli per periodiche passeggiate sull’Appennino, approfittò di queste occasioni per sottrarsi alla sorveglianza della polizia, che teneva sotto controllo gli ex appartenenti al Partito popolare italiano, e cominciare a discutere su prospettive politiche diverse
(26). Vi fu anche don Del Monte, che nel 1938 sviluppò, in una prospettiva storica di bruciante attualità, un intervento sulla lotta per le investiture appoggiata dalla Chiesa, che determinò nel Medioevo l’affermazione dei liberi comuni: «La lotta che contro gli imperatori sostennero i Papi, fu lotta profondamente religiosa […], ma fu ancora nello stesso tempo lotta civile, perché interessava direttamente le sorti della civiltà cristiana e umana» (27).

Vi fu ancora don Giuseppe Cavalli, assistente dei Laureati cattolici, che in piena campagna razziale tenne una lezione su «La persona umana», in cui sottolineò che l’uomo «giovane o vecchio, libero o schiavo, sano o infermo, che abbia o no l’uso della ragione» manteneva le sue origini divine e i suoi diritti inalienabili
(28).

Si trattava di segnali destinati a rafforzarsi nel corso del confl itto, quando le ripetute sconfitte sui diversi fronti militari in cui era impegnata l’Italia accentuarono il distacco di strati sempre più larghi della popolazione dalla sorte del regime. All’entrata in guerra della nazione, comunque, Colli esortò i fedeli a compiere integralmente «il dovere assegnato dalle pubbliche Autorità», interpretando quanto stava avvenendo con spirito di fede e carità. Il trauma bellico andava, infatti, vissuto in chiave religiosa, come castigo divino, a cui bisognava reagire intensificando le pratiche di pietà: «Le nostre preghiere, i nostri sacrifici, la nostra carità benefica, siano le armi pietose che placano la giustizia di Dio e ne invocano i favori per un avvenire migliore della Patria e dell’Umanità»
(29).

Su questa lettura, che suscitò il risentimento delle autorità fasciste che avrebbero desiderato un sostegno meno tiepido alla causa della nazione in guerra, il presule sviluppò nel 1942 una riflessione più articolata e, al contempo, sofferta, per cogliere le «lezioni della guerra». Nella lettera pastorale, il vescovo di Parma criticò sia «l’odio eretto a sistema di educazione e inculcato come un comandamento», sia il «nazionalismo esagerato» che le parti in conflitto alimentavano, avvelenando gli animi. L’intervento, che si muoveva nel solco delle tradizionali dissertazioni sulla guerra giusta, non affondava il tiro sulla portata di un conflitto che stava sconvolgendo l’umanità al di là di ogni plausibile legittimazione
(30).

Pur non appiattendosi sulle ragioni sbandierate dalla propaganda del regime, Colli sollecitò la coscienza dei credenti a spendersi per non fare mancare il proprio apporto allo sforzo patriottico, cercando, quindi, di trarre le lezioni necessarie per far maturare i «frutti spirituali e morali» che si intravedevano tra le pieghe del combattimento
(31).

Questa posizione risultò più problematica nel contesto di «guerra civile» che si scatenò in Italia dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943. Nel corso dei venti mesi dell’occupazione nazista, il vescovo di Parma invitò ripetutamente i fedeli alla prudenza, per adoperarsi ad alleviare i dolori provocati dal dilagare della violenza. Nel messaggio natalizio del ’44, in particolare, Colli esortò i parmensi ad accettare le disposizioni «emanate da chi (sia l’Autorità Italiana o il Comando delle Forze Armate Germaniche) a[veva] la grave responsabilità dell’ordine pubblico». Nell’appello lanciato, il presule, dopo aver deprecato la lotta fratricida, implorò di «aborrire da ogni forma di violenza e da tutto ciò che possa, in qualsiasi modo, alimentarla colla vendetta»
(32). Il magistero incessante che ne accompagnò l’episcopato in questo periodo fu indirizzato al recupero della «concordia di animi», oltre le divisioni di parte:

vi supplico, ancora una volta, di astenervi [scrisse all’indomani dei pesanti bombardamenti che colpirono Parma tra aprile e maggio del 1944] da tutto ciò che possa turbare l’ordine pubblico in questo momento così drammatico e particolarmente vi scongiuro di non commettere atto alcuno di violenza o anche soltanto di provocazione, per non gettare la città in un abisso di sventura. Pensi ciascuno ai poveri innocenti che domani potrebbero essere vittime delle rappresaglie; nessuno contribuisca ad aumentare quella che è già la più grave sventura della Patria, cioè la discordia e la guerra civile (33).


Alla parola pubblica Colli accompagnò un’intensa opera per sostenere le attività caritative, orientare la popolazione, favorire lo scambio di prigionieri tra le parti in conflitto (34). In controluce all’atteggiamento assunto, si può individuare una perplessità di fondo sull’opzione della Resistenza armata, che, tuttavia, non lo trattenne dall’appoggiare e coprire la decisione di non pochi membri del clero diocesano di dedicarsi all’assistenza spirituale delle formazioni partigiane.  I cattolici parmensi si trovarono, perlopiù, nella sofferta posizione di arrivare a una scelta di campo senza un sostegno adeguato. Furono, comunque, tantissimi i credenti che maturarono – in solitudine o con il consiglio di un prete o ancora nell’ambito di un gruppo parrocchiale di Azione Cattolica – la scelta resistenziale.

Tra i tanti nomi di esponenti del mondo cattolico parmense impegnati nella guerra di liberazione, basti ricordare figure come il vice-comandante del Corpo volontari della libertà regionale, Giovanni Vignali, formatosi nel circolo stimmatino «D.M. Villa», al pari di Renzo Ildebrando Bocchi, che morì nel campo di concentramento di Flossenbürg; i soci della Gioventù di Azione Cattolica di Neviano Arduini, Silvio Monica e Marcello Cavazzini, partigiani della 43ª Brigata SAP Garibaldi, che furono fucilati dai nazisti a Villa Cadè di Reggio Emilia; Bruno Bocconi, cresciuto nella Gioventù cattolica di Mezzano Inferiore, che meritò la medaglia d’oro alla memoria al valor militare per aver combattuto nella 47ª Brigata Garibaldi
(35).

Non vanno dimenticati, inoltre, i tanti militari che, all’indomani dell’armistizio, per aver rifiutato l’inquadramento nell’esercito tedesco al momento della cattura, pagarono con l’internamento nei campi di concentramento in Germania la scelta compiuta, riuscendo a mantenere – come scrisse Giorgio Coppa, un giovane dell’Azione Cattolica, nel Diario della prigionia – sempre in «alto i cuori»
(36).

Al di là dei casi esemplari, fu comunque rimarchevole – come si è soliti rilevare, ricorrendo a una formula canonica – la partecipazione dei cattolici alla Resistenza. Pur non potendo introdurre un automatismo nelle scelte di militanza, che in molti casi corrispondevano a motivazioni casuali, non si può fare a meno di evidenziare come nella provincia “rossa” di Parma operarono, su un totale di ventuno, ben undici brigate “autonome”, denominate Julia.

La Resistenza non è, peraltro, riducibile ai soli aspetti militari e politici.  Significativo fu anche il coinvolgimento fattivo, che esponeva a rischi non meno gravi della lotta armata, nell’esercizio della carità a favore dei bisognosi, dei perseguitati, delle vittime della guerra, di cui fu protagonista soprattutto l’universo femminile
(37). In quest’ottica va inquadrata anche l’opera del clero che, per il legame simbiotico che lo univa alla popolazione civile, in larga parte rimase in «trincea» nella «guerra in casa» che si era scatenata (38).

La tutela esercitata nei confronti della comunità si estese senza le limitazioni che il conflitto ideologico imponeva, come annotò don Nello Magri, parroco di Carobbio di Tizzano, in una testimonianza che assume un valore emblematico:

Il paese, in questo frangente, come sempre, non è venuto meno alla sua tradizione di generosità col portare soccorso ad ognuno senza guardare se fosse italiano, o tedesco, o inglese: la carità non guarda in faccia a nessuno (39).

La Seconda Guerra Mondiale, attraverso tutti i suoi drammi, rappresentò in questo senso un momento di forte dinamismo per la Chiesa di Parma, che, sollecitata vigorosamente dalle lacerazioni storiche prodotte, fu spinta a ripensare profondamente al proprio modo di essere dentro alla storia per rendere compatibili le ragioni di Dio con quelle dell’uomo.

NOTE

(1) Cfr. Il nostro posto, «Vita nuova», 10 maggio 1919.

(2) G.M. CONFORTI, Azione Cattolica e azione sociale, 15 febbraio 1919, in Lettere pastorali (Ravenna 1902-1905 – Parma 1908-1931), Roma, Postulazione generale saveriana, 1983, pp. 465-477.

(3) G. DEL MONTE, Tra la cronaca e la storia, «Vita nuova», 5 giugno 1926.

(4) G. DEL MONTE, Dal vecchio al nuovo anno, «Vita nuova», 25 dicembre 1926.

(5) Il documento, redatto da Vittorio Vergnano nel novembre 1926, è riportato in F. CANALI, La Gioventù cattolica a Parma durante l’episcopato di mons. Guido Maria Conforti (1907-1931), in La «Gioventù cattolica» dopo l’unità 1868-1968, a cura di L. Osbat e F. Piva, Roma, Edizioni di storia e letteratura, 1972, p. 501.

(6) G.M. CONFORTI, Alla Gioventù della Città e della Diocesi, «L’eco», XVIII, n. 5, 1926, pp. 89-91.

(7) G. DEL MONTE, Orizzonti più vasti, «Vita nuova», 29 settembre 1928.

(8) G.M. CONFORTI, Ai dilettissimi diocesani, 12 febbraio 1929, in Archivio Conforti, Centro sudi confortiani saveriani dell’Istituto saveriano missioni estere di Parma [d’ora in poi Archivio Conforti], Epistolario, vol. 22/1929.

(9) Cfr. A. MANFREDI, Guido Maria Conforti, Bologna, EMI, 2010, pp. 582-585.

(10) L’adesione della Giunta Diocesana, «Vita nuova», 23 marzo 1929.

(11) La personalità dei cattolici, «Vita nuova», 30 marzo 1929.

(12) La lettera, scritta il 28 aprile 1931, si trova in Archivio Conforti, Epistolario, vol. 24/1931.

(13) Il discorso è riportato in G. DALLA TORRE, Azione Cattolica e fascismo, Roma, AVE, 1964, p. 86.

(14) Lettera di G.M. Conforti a C. Negri, 13 luglio 1931, in Archivio Conforti, Epistolario, vol. 24/1931.

(15) Il testo in «Vita nuova», 12 settembre 1931.

(16) Lettera di G.M. Conforti a E. Pacelli, 1° ottobre 1931, in Archivio Conforti, Epistolario, vol. 24/1931.

(17) E. COLLI, Vengo come ambasciatore di Cristo nel nome e coll’autorità di Dio…, 26 luglio 1932, in Lettere pastorali 1932-1956, a cura di P. Triani, Torino, SEI, 1956, p. 27.

(18) E. COLLI, Cattolici e protestanti, Festa di Pentecoste 1935, ibidem, p. 101.

(19) E. COLLI, I cattolici e il bolscevismo, 14 gennaio 1931, ibidem, pp. 119-141.

(20) A. LEONI, Il circolo cattolico «Domenico Maria Villa» dell’Oltretorrente parmense durante il pontificato di Pio XI, in Chiesa, Azione Cattolica e fascismo nell’Italia settentrionale durante il pontificato di Pio XI (1922-1939), a cura di P. Pecorari, Milano, Vita e pensiero, 1979, p. 1055.

(21) E. COLLI, Il dovere dell’ora attuale, «Osservatore romano della domenica», pagina di Parma, 24 novembre 1935.

(22) Cfr. P. TRIONFINI, Una storia lunga un secolo. L’Azione Cattolica a Parma 1870-1982, Parma, Editrice Pietro Fiaccadori, 1998, p. 129.

(23) E. COLLI, Dopo la Visita Pastorale. Gioie. Trepidazioni. Speranze, 5 febbraio 1939, in Lettere pastorali… cit., pp. 175-176.

(24) Ivi, p. 181.

(25) Cfr. M. CASELLA, L’Azione Cattolica all’inizio del pontificato di Pio XII. La riforma statutaria del 1939 nel giudizio dei vescovi italiani, Roma, AVE, 1984, pp. 111-120.

(26) Cfr. G. VECCHIO, Giuseppe Micheli nell’Italia del Novecento: dal fascismo alla democrazia, in Giuseppe Micheli nella storia d’Italia e nella storia di Parma, a cura di M. Truffelli e G. Vecchio, Roma, Carocci, 2002, p. 383.

(27) G. DEL MONTE, Profilo spirituale di S. Bernardo degli Uberti, Parma, Fresching, 1939.

(28) Cfr. M. CAMPANINI, Don Giuseppe Cavalli: contributo per una biografia, in Don Giuseppe Cavalli tra antifascismo, Resistenza e democrazia, a cura di G. Campanini, Parma, Quaderni de «Il Borgo », 1987, p. 66.

(29) E. COLLI, Ora grave, «L’eco», XXXII, n. 5-6, 1940, p. 549.

(30) Questa posizione più tradizionale sarebbe stata superata nel corso degli anni Cinquanta, nel clima del terrore atomico, quando Colli abbozzò una rifl essione sull’impraticabilità della teoria della guerra giusta nei confl itti moderni. Al riguardo, v. «Tu non uccidere », Mazzolari e il pacifismo italiano del Novecento, a cura di P. Trionfini, Brescia, Morcelliana, 2009, passim.

(31) Si vedano le due lettere pastorali La Provvidenza di Dio e l’ora attuale e Le lezioni della guerra, rispettivamente del 1941 e del 1942, in E. COLLI, Lettere pastorali… cit., pp. 197-229.

(32) E. COLLI, Nella terra squarciata germina il pane di domani, 13 dicembre 1943, «L’eco», XXXV, n. 8, 1943, pp. 117-118.

(33) E. COLLI, Per le vittime dei bombardamenti e «La violenza è dei deboli…», «L’eco», XXXVI, 1944, n. 3, pp. 48-50 e n. 4, p. 79.

(34) Cfr. P. BONARDI, Scambi di prigionieri-ostaggi durante la lotta di liberazione nel parmense (III parte), «Storia e documenti», II, n. 3, 1990, pp. 65-87, e ID., Mons. Evasio Colli mediatore di pace. Autorità ecclesiastica e occupanti tedeschi (agosto 1943-aprile 1945), Parma, «Vita Nuova», 1996.

(35) Sull’ampio spettro di queste scelte, rimane ancora un punto di riferimento importante il volume Il contributo dei cattolici alla lotta di Liberazione in Emilia-Romagna, Parma, Associazione partigiani cristiani, 1966. Si veda, ad ogni modo, M. VANIN, I cattolici di Parma, la guerra e la Resistenza, in Giuseppe Micheli… cit., pp. 414-447.

(36) G. COPPA, … Perché a vent’anni la vita è bella. Diario di prigionia (settembre ’43-agosto ’45), a cura di J. Schianchi, Parma, Graphital, 1995, p. 114.

(37) Cfr., in termini generali, Donne, Resistenza e cittadinanza politica. Avvenimenti, passioni, emozioni, delusioni, a cura di M. Minardi, Parma, Istituto storico della Resistenza per la provincia di Parma-Centro di parità Provincia di Parma, s.d.

(38) Cfr. l’ampio affresco tratteggiato da P. BONARDI, La Chiesa di Parma e la guerra 1940-1945, Parma, Benedettina, 1987, pp. 122-130.

(39) Una copia del diario si trova nell’Archivio dell’Istituto storico della Resistenza di Parma.

 
 
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